Introspezione: cosa significa essere un “endonauta”

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Se stai cercando una definizione oggettiva ed accademica del termine “introspezione”, gira alla larga da questo sito.

Qui di accademico c’è solo il titolo di studio di chi scrive (che, per inciso, ne ha apprezzato moltissimo la qualità della stampa).

Qui parliamo di vita.

Nello specifico della vita di quella categoria di esseri umani che qualcuno identifica come “introspettivi”: ne conosci qualcuno anche tu?

Cercali e li troverai: si nascondono a qualche raduno di nerd, oppure al cinema (sono quelli scolpiti nelle poltrone) o ad un concerto jazz.

Li vedi nei parchi in cui, tra sciami di campioni di jogging e fotografi new age, loro ancora camminano.

L’introspezione è un talento così scontato, così banale, che tutti dimenticano di possederlo da sempre.

I media celebrano così spasmodicamente la bellezza del mondo “là fuori” che abbiamo dimenticato che esiste un mondo “là dentro”.

Che necessita di cure tanto quanto l’ambiente circostante.

Ecco la mia proposta di una ecologia del sé.

Endonauta introspettivo: esploratore di sé stesso (o il cane e la sua coda)

introspezione

Questo paragrafo poteva benissimo chiamarsi “un-cappello-dentro-un-cappello-dentro-un-cappello-etc.“.

Sai perché?

Perché la prima abilità che un vero endonauta (diplomato al C.A.N.E. – Centro Acronimi e Neologismi per Endonauti) deve padroneggiare è la seguente: apprezzare una litografia di Escher.

Ti starai di nuovo chiedendo perché (o più verosimilmente sarai scappato sul tuo feed di Facebook a farti distrarre da un gattino tenerissimo).

La risposta è che l’introspezione, per natura, è un atto inconcludente.

Per padroneggiare l’arte della riflessività, dell’incontro con le parti più intime di te stesso, devi essere disposto ad inseguirti la coda.

Se sei finito su questo articolo, o hai perso una scommessa oppure hai già spolpato la definizione di “introspezione” su Wikipedia.

La quale ci ricorda che Socrate stesso riconduceva tutto alla necessità di sapere di sapere, al conosci te stesso al solecuoreamore.

È vero che probabilmente con Socrate io e te condividiamo una certa curiosità verso il mondo interiore, un po’ di egocentrismo e la barba (se sei una fanciulla forse no).

Ma nessuno, nessuno, ci insegna mai che la bellezza di questo atto così intimo sta proprio nel suo carattere di inconcludenza.

L’inconcludenza non è l’incapacità di operare concretamente (per cui tutti ti accuseranno di star rubando spazio alle nuvole con la tua testa): tutt’altro.

È la capacità di irrealizzare concretamente.

Di essere e scegliere, anche in mancanza di rigore, forza logica o scopo.

È la capacità di essere a prescindere dal risultato, voluto da te o dagli altri.

Di essere pazienti perché si sa che si aspetterà sempre.

Una capacità inutile. Che rimane a margine. Tu stesso, mica la metti nel curriculum.

Non metti nel curriculum che sai fantasticare; che ti perdi in un libro; che hai una teoria bislacca sul tempo; che hai scoperto un trucco mentale per ricordarti dove hai messo le nacchere.

L’endonauta fa questo: si distacca da sé stesso per esplorare sé stesso.

Si concede il lusso di prendersi una vacanza dalle circostanze e va dritto nel solo posto dove può essere lui/lei a circondare.

Andiamo a circondare.

Devi sapere che c’era tutto un filone di psicologia negli anni trenta che disconobbe all’introspezione qualunque grado di conoscenza: se non fornisce dati misurabili, non serve a niente.

E invece l’endonauta sa che esplorare la propria anima, con i mezzi inaspettati che vedremo dopo, è un modo eccezionale di conoscere la vita, propria, degli altri e delle cose.

Ma attenzione: il vero endonauta non si perde negli abissi dell’introspezione.

Torna sempre a galla e non è pigro: quello che ha imparato lo dice.

Ne parla.

Ne scrive.

Il luogo dell’introspezione: il Sé (e se esiste)

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Io mentre rifletto sui luoghi dell’introspezione durante il Cammino di Santiago, e faccio anche pipì.

Prima di fare un viaggio sarebbe auspicabile che tu sapessi dove ti stai recando.

Non lo reputo un requisito essenziale ma diciamo che generalmente stabilire una meta può aiutarti a non finire per sbaglio in Transilvania (che è bellissima).

Stessa cosa dovresti fare in quanto endonauta.

Se esplori te stesso, la prima cosa da fare è capire cos’è, sto testesso.

Il bello di questa ricerca è che mentre la fai stai già navigando.

Ti stai già ritagliando il tuo spazio di umilissimo egotismo, alla faccia di chi ti succhia il tempo dai polpastrelli attraverso il touch screen.

È come se aprissi tripadvisor e fossi già arrivato.

Come se trivago avesse il bagno privato.

Farsi domande “inutili” è già fare ecologia del sè, oltre ad includere il benefit non trascurabile di sentirsi come qualche decina di filosofi viventi e non.

Questi signori filosofi, in realtà, non sono mai realmente pervenuti ad un consenso diffuso circa ciò che esattamente significa essere un sé.

Cosa significa essere (o avere) un sé?

Non si capisce neanche se questo sé sia effettivamente esperibile, se esista o sia soltanto una finzione teoria, un artificio linguistico.

Pensaci un attimo: che effetto ti fa essere te?

Che esperienza hai dell’essere te stesso?

Vai di introspezione, calati un attimo nel palcoscenico della tua mente (senza acidi per favore).

Troverai le percezioni legate ai tuoi sensi, allo star leggendo e toccando uno schermo, ai suoni che ti circondano, la sensazione delle tue chiappe su una sedia o un divano.

Poi c’è una percezione bellissima: lo scorrere del tempo, che merita un articolo a parte.

Ci sono le sensazioni corporee.

Poi ci sono i pensieri, immagini, ricordi…

Concentrati: sarai sicuramente in grado di distinguere un disco di Patty Pravo da uno dei Beatles.

Ma riusciresti ad individuare un terzo elemento, un ego puro, che sia intenzionalmente diretto verso i due dischi, che stia avendo esperienza dei due dischi di cui sopra?

Attenzione, magari tu puoi dirmi: Gabriele, francamente io ci riesco.

E ok.

Dico solo che non c’è consenso unanime sull’individuazione di tale entità (non tutti ci riescono insomma).

Dice Sartre (ops, ho citato un autore) che se tenti di descrivere la tua coscienza non troverai alcun ego, inteso sia come qualcosa che abita la tua coscienza sia come qualcosa che la possiede.

Niente che sia o abbia un sé.

Si dice qualche volta di una persona che è assorta in qualcosa che ha “dimenticato” se stessa.

Vero, no?

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Quando sei assorto nella lettura di una storia, hai coscienza di star leggendo ma, secondo Sartre, non hai alcuna consapevolezza di un te che legge.

Finché sei assorto nel libro, finché lo stai vivendo, non appare nessun ego.

Questo dovrebbe già farti intuire il valore incommensurabile delle storie: ne basta una, bella intensa, e potenzialmente TU puoi sparire.

“Gabriele ma io non voglio sparire affatto: perché dovrebbe essere desiderabile la scomparsa dell’ego?”

Punto uno: non è che sparisci tu.

Scompare, per un attimo, la consapevolezza che hai di te stesso, perso come sei nei panegirici di una storia.

Scompare il tuo sè, che emerge solo quando in qualche modo ti allontani dalla tua esperienza cosciente, rifletti  su di essa.

Dice Sartre che l’ego che appare quando rifletti è l’oggetto non il soggetto della tua riflessione: in pratica non potrai mai riflettere sull’essere un soggetto… mentre sei un soggetto.

Se ci rifletti, sul soggetto, diventa un oggetto.

È un po’ come voler comprare un cartone di latte e quando allunghi la mano ti accorgi di essere tu stesso un cartone, mentre una mano (la tua?) ti sta per acchiappare.

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Se è vero, si può davvero dire che esiste qualcuno che sta comprando il latte?

In questo senso il sé (per Sartre, anche se poi aggiusterà il tiro) non esiste.

Ogni volta che esamini riflessivamente l’io è come se fosse l’io di un’altra persona.

Si dice che l’io è trascendente.

Capisci l’importanza di Escher? 🙂

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Introspezione superficiale: il sé esiste (eccome!)

A questo punto di solito si sollevano una decina di mani ciascuna delle quali nasconde la frase: “Io esisto, eccome, non lo si metta in dubbio! Guarda!

E scattano blasonate manifestazioni di affermazione della propria identità.

Come mostrare le proprie foto da neonati o raccontare la propria vita a quel disgraziato che ti chiede come va.

Senza mai ricambiare il favore, come con un “come stai tu”.

Nella quotidianità sei talmente ossessionato da quest’idea di affermare te stesso che non ti fermi a pensare a cosa significhi.

Cos’è che stai facendo di preciso “affermando la tua identità”?

Ho scritto una canzone (curiosamente si chiama proprio “Se”, ma senza l’accento) in cui dico che non si fa altro che “seminare sé stessi andando avanti“.

Tutto bello.

Ma se per un istante accogliessimo la possibilità che l’identità non è un edificio monolitico di cui ogni successo è un mattone, magari vivremmo la cosa con meno ansia.

No?

Gli edifici, dopo tutto, crollano.

E ci credo che hai paura, con tutta la fatica che hai fatto a tirarlo su.

Un’introspezione superficiale si ferma al considerare il sé come qualcosa che sussiste indipendentemente da ciò che ti circonda e dalle esperienze che hai e che fai.

Secondo questo approccio, senza questo fantomatico sé fisso e distinto non potremmo esperire affatto (anche se esso stesso non si può esperire).

Puoi assaggiare una dose di whiskey al malto, odorare un mazzo di viole, ammirare un dipinto di Picasso e ricordare una visita a Venezia…

Eppure non cambi mai, cantava Mina.

Sei sempre tu.

Sempre legittimato a dirti e a dire alle altre persone importanti della tua vita “Io sono fatto così”.

“Io sono fatto così”.

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Illustrazione della bravissima Silvia Ziche

Per quanto a volte sia rassicurante farlo, la realtà è molto più complessa e bisogna stare attenti a non scolpirla in frasi fatte alle quali si rischia di abbarbicarsi.

Frasi come edifici monolitici nelle quali ti ingabbi da solo.

Le parole hanno un potere eccezionale, nel bene e nel male: infatti spesso diventano simulacri di quello che volevano dire.

Sopravvivono al senso iniziale che si voleva comunicare.

Tipo lapidi.

Su un senso sepolto vivo.

Ok, a volte divento creepy, lo so.

Ma vorrei che il messaggio ti arrivasse forte: stai attento a definirti come un sé scolpito nella pietra, ti stai perdendo un buon 70% della grandiosità della vita.

Sono solo parole, lasciale scorrere.

Parole, parole, parole, cantava Mina.

La spiegazione narrativa: la risposta alla domanda “Chi sono?”

Sei pronto per affrontare una concezione del tutto diversa di fare introspezione e di intendere la tua identità?


Aspetta!

Ho impiegato diverse ore per scrivere questo articolo!

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Così avremo modo di conoscerci meglio (scrivimi un messaggio privato per presentarci)! 🙂


Abbiamo visto che:

  • c’è chi pensa che il sé non esista affatto: non si può vedere, sentire o toccare, e se ci provo diventa altro da me. Quindi ciccia.
  • Poi abbiamo visto chi invece sostiene che il sé esiste, eccome. È un nucleo di identità a priori, che non si può esperire, ma dobbiamo dire che esiste per forza (eccome!).

Oltre queste due prospettive ce n’è un’altra che non hai ancora considerato, tutto preso come sei da questo viaggio introspettivo che stai facendo con me. 🙂

Mentre passeggiamo sul viale della mente, tra germogli di ricordi e rossi papaveri sognati…

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… Ad un certo punto mi fermo, mi giro, e ti chiedo:

“Chi sei?”

Facciamo finta che la tua risposta sia l’esatta copia della tua descrizione su Linkedin (che hai scritto prima perché sei un lettore/lettrice preparato/a).

Inizia così: “mi chiamo X, ho Y anni, lavoro per l’azienda Z, faccio W di mestiere.”

Oppure della tua descrizione su Facebook: “amo la lettura e i viaggi in bicicletta, sono libera e fiera di esserlo.”

Oppure della bio sul tuo blog: (e qui partono le avventure di Arwen nel Signore degli Anelli).

Il fatto è che come risposta alla domanda “Chi sei?” o alla domanda “Chi sono?” (se sei pazzo e te la fai da solo) breve o lunga che sia, è una storia.

Una storia che mette in evidenza degli aspetti particolari, ciò che reputi importanti, ciò che costituisce il leitmotif della tua vita.

La tua storia è ciò che offri agli altri per riconoscerti e sentirti approvato.

Invece di essere tu una COSA data una volta per tutte e immutabile, quel tu è qualcosa di cui invece ti appropri continuamente e che ottieni in gradi diversi.

Finché la vita scorre, non metti mai il punto.

E lo stesso si può dire del sé, che non è una cosa fissa ma evolve.

Realizzi il tuo sé attraverso i progetti e le tue azioni e quindi non lo puoi comprendere indipendentemente dalla tua auto-interpretazione, il tuo auto-narrarti.

E quindi fattene una ragione: non hai un sé così come hai un cuore o un naso (questo lo dice Taylor).

Potresti obiettare: “non è che mi sto auto-narrando! Sto narrando il mio sé, che esiste (eccome) anche se non (me) lo racconto!”

E invece no, perlomeno per chi sostiene la concezione di sé come costruzione narrativa.

Non esiste alcun sé prima del racconto, nessun sé prelinguistico.

Credere che esista un simile sé significa, pressoché alla lettera, che siamo stati tratti in inganno dalle nostre storie.

Quindi, dalla nascita alla morte, il sé è la tua auto-narrazione.

Il sé come auto-narrazione?

Fermi tutti: mica è così semplice!

Non sei soltanto la TUA auto-narrazione: siccome sei nato in un contesto sociale la tua storia viene influenzata da quella degli altri.

E non solo dai tuoi “vicini”, ma anche dalla storia delle comunità in cui vivi.

Arrivi a sapere chi sei e cosa vuoi fare nella vita prendendo parte a una comunità linguistica.

Gli altri intorno a te sono chiamati ad ascoltare e accettare le spiegazioni narrative che dai delle tue azioni ed esperienze.

Come dice Bruner, le storie che ci fanno essere noi stessi non sono costruite da zero: si strutturano su generi convenzionali.

Diciamo che vuoi scrivere un romanzo horror.

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Storia horror

Come fai a sapere che esiste questo tipo di genere letterario?

Te l’hanno detto.

L’hai letto.

L’hai visto.

Quando parli di te, la forma del tuo racconto è guidata dai modelli culturali di ciò che il sé dovrebbe e non dovrebbe essere.

Vedi che conoscere sé stessi allora è un fatto meno intimo di quanto si pensi?

Stiamo dicendo che tu non sei l’unico autore della storia!

Pazzesco no?

L’inizio della tua storia è sempre già stato avviato per te dagli altri e il modo in cui la storia si sviluppa solo in parte è determinato dalle tue scelte e decisioni.

La tua storia non solo si intreccia con quelle dei tuoi genitori, fratelli, amici ma è anche incorporata in una struttura di significato più ampia, come le tradizioni della comunità in cui vivi ad esempio.

Una storia dentro una storia dentro una storia.

Come ti senti nello scoprire questa teoria?

Io inizialmente fui stordito.

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Io stordito.

Lessi questa “storia” e mi sentii un po’ come un buco nero che attrae tutto.

In questo marasma di storie, come faccio a capire qual’è la mia?

Cos’è realmente mio e cosa sto rubando da una storia più grande di me che non posso leggere perché ne faccio parte, ne sono un protagonista?

Se ci pensi questa teoria in effetti si avvicina molto a quella dell’inesistenza del sé: il sé narrativo d’altronde è solo una finzione

Una finzione utile perché conferisce alla vita un senso pratico di continuità.

Ma sempre di finzione si tratta.

I nostri sé sono finzioni inevitabili, perché non ti puoi impedire di “inventare” il tuo sé.

Sei biologicamente fatto per imparare una lingua: e quando l’hai imparata vieni “catturato” dalla sua rete di significati e inizi a tessere la tua storia.

Dennet dice: “I nostri racconti vengono tessuti ma per lo più noi non li tessiamo: essi ci tessono.

Ma il sé narrativo non è un sé reale, sostanziale: è un più un “centro di gravità narrativa” astratto, attorno al quale le varie storie si intrecciano, si snodano, si toccano.

Un buco nero che attrae storie.

Le storie che ti narri tu e le storie che raccontano su di te.

Non è proprio il massimo sentirsi un buco! 😀

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Introspezione fenomenologica: ti presento il Sé in persona

Cerchiamo di tirare le somme e ricongiungere gli approcci precedenti: stiamo cercando di capire qual è il luogo dell’introspezione.

Dov’è che navighiamo quando andiamo per mari e monti immaginari.

C’è il luogo come non luogo.

Poi c’è il luogo come una storia intorno a un buco nero.

Cerchiamo di trovare un terzo approccio che ci soddisfi, per terminare questo viaggio con un sorriso 🙂

Torniamo alla nostra esperienza, e alla domanda:

“Che effetto ti fa essere te?”

Il terzo approccio, quello che cerca di descrivere (occhio: descrivere, non spiegare) nel modo più dettagliato possibile l’esperienza si chiama fenomenologico.

Ebbene, la soluzione/non-soluzione fenomenologica al problema del sé è la seguente: un sé che non sia il prodotto del nostro raccontarci esiste ma è connaturato all’esperienza stessa.

Per esserci precisi, è una qualità dell’esperienza.

È come dire che la coscienza è verde.

O blu.

Ecco, l’esperienza cosciente ha una qualità che puoi identificare come l’apparire  in prima persona dei fenomeni esperienziali.

Pensa a diversi tipi di esperienza: l’odore del fieno, vedere un tramonto, la puzza di ascelle, etc.

Hanno tutte una caratteristica in comune.

La “mieità”.

Con l’eccezione di alcuni stati patologici, come la schizofrenia, le esperienze che vivi in prima persona sono le tue esperienze.

Se guardi Titanic al cinema, dipingi un quadro, scrivi una lettera o muovi il piede destro, hai sempre la sensazione che queste esperienze siano tue.

È una qualità che possiamo chiamare mieità (solo perchè tuità suona malissimo).

Tutte le esperienze si portano una sottile esperienza del sé, quindi c’è sempre una forma primitiva di autoreferenzialità, di un essere-per-me.

Questo è il requisito necessario affinché una storia sia narrabile, ovvero che tu la senta tua.

Bisogna quindi distinguere tra l’avere una prospettiva in prima persona e l’essere capace di articolarla linguisticamente.

E qui arriva il bello.

Perché questo sé esperienziale va distinto da quello narrativo.

Non ha senso chiamare “sé” il “sé narrativo”, se abbiamo appena individuato il sé nella qualità della mieità.

Ci vuole un’altra parola.

Quando parliamo di costruzione narrativa allora parliamo di persona.

Dopotutto la tua personalità evolve nel tempo, è plasmata continuamente: è una storia in divenire, inserita in altre storie e influenzata da altre storie, come abbiamo detto prima.

Sai da dove viene il termine persona?

Dal latino, indica le maschere indossate dagli attori.

Con ciò non intendo dire che in quanto persone siamo mere finzioni, indico solo il legame etimologico tra i concetti.

Quindi il sunto è: grazie alla natura in prima persona dell’esperienza, alla mieità, la nostra vita esperienziale può essere individuata.

Possiamo raccontarci e distinguere le nostre storie da quelle degli altri in quanto persone.

Ecco che abbiamo ricongiunto i due approcci: il sé è un “centro di gravità narrativo”, ma non è vuoto, perché grazie all’esperienza che abbiamo della mieità non abbiamo motivo di credere che non esista.

Tira un lungo sospiro e dai il cinque al tuo sé!

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Il tuo Sé (alla fine hai avuto il gattino tenerissimo).

Introspezione: fare ecologia del Sé

Siamo giunti alla fine di questa lunga riflessione, che ha senz’altro sfiancato la tua e la mia lucidità.

Ma spero ti abbia anche corroborato l’anima.

Facci caso: un articolo come questo è una storia.

È l’espressione narrativa di un sé, del mio, ma anche del tuo che l’hai letta e quindi vissuta.

In quanto viaggio narrativo, ha calato le nostre reciproche personalità in un contesto comune.

In un ambiente, non fisico ma narrativo.

Abbiamo fatto ecologia dei nostri sé.

È arrivato il momento di risolvere un’ambiguità.

Ecco la precisazione: uso il termine ecologia perché comunemente viene usata indistintamente come sinonimo di ambientalismo e  della necessità di conservare e difendere la natura.

In senso stretto, ecologia è lo studio degli organismi inseriti nel loro contesto naturale.

Mi stanno bene entrambe le accezioni 🙂

Ecologia del sé significa tornare a prendere contatto con il proprio mondo interiore.

Nella pratica significa conservare e difendere la propria storia.

Ecologia del sé significa riscoprire la propria natura di endonauti e vivere la vita con la consapevolezza che la qualità della tua auto-narrazione ha ripercussioni sul tuo benessere.

Come si fa nella pratica?

La prossima volta che leggi un libro, o guardi un film, chiediti in che modo quella storia che hai appena vissuto può far parte della storia della tua vita.

Esci dal cinema e trattieni dentro di te i valori, i concetti, le suggestioni, i significati che ritieni desiderabili, e che sai possano far bene a te e alle persone che ami.

Stai attento alle parole che usi per descriverti: un “che stupido sono stato” ripetuto più volte potrebbe diventare una epiteto ricorrente al quale il tuo personaggio prima o poi potrebbe credere.

E tu non vuoi credere di essere un stupido vero?

Raccontati di essere buono/a, di poter essere felice, di poter ottenere quella ambita promozione o conquistare il lui/lei che ami.

Ascolta le storie delle persone che ti circondano come se fossero dei libri preziosi e arricchisci la tua anima o il tuo sé ad ogni pagina.

Racconta la tua storia e lascia che gli altri facciano lo stesso.

Cosa vorresti che accadesse nella tua storia?

Scrivimelo nei commenti 🙂

Gabriele

PS:

Non sono pazzo!

In questo articolo non mi sono inventato niente (tranne lo stile scanzonato).

Lasciami cedere ad un po’ di rigore, lasciandoti un stringatissima bibliografia 🙂

Eccola:

Sartre, J.-P. (1957), La Trascendenza dell’ego: una descrizione fenomenologica. Tr. it. Arturo Berisio Editore, Napoli 1966
Taylor, C. (1989), Radici dell’io: la costruzione dell’identità moderna. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1993
Dennett, D. C. (1991), Coscienza: Che cosa è. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2009
Bruner, J. (2002), Making Stories: Law, Literature, Life. Harvard University Press, Cambrdge, MA.

PPS:

Se sei arrivato a leggere fino a qui forse sei pronto il prossimo passo:

Scopri il mio nuovo album “Endonauta! 🙂

Sull'autore

Gabriele

Sono un cantautore e music marketer, aiuto i colleghi a farsi scoprire DA VIVI.

By Gabriele

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