La musica è tappezzeria sonora

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La faccenda è complessa, inizio con un virgolettato di Giampiero Di Carlo da Rockol.it:

“Oltre 70.000 brani caricati ogni giorno sulle piattaforme sono il risultato naturale dell’assenza di barriere all’ingresso, senza le quali ogni aspirante musicista o “emergente” si trasforma in recording artist. La loro conseguenza naturale, per contro, è una sovrabbondanza di offerta che rende la scoperta della musica del 99,9% di essi prossima all’impossibile.”

Se a ciò si aggiunge il fatto che con Tik Tok la celebrità (fugace) riguarda (porzioni di) canzoni e non di personaggi è facile arrivare alla conclusione che la musica è diventata tappezzeria sonora e ha perso la sua capacità di fare cultura.

Citando sempre Giampiero, “è il tempo del dominio dei singoli brani, a prescindere dall’artista che li propone e pure dal contesto e dalle circostanze in cui diventano famosi.”

Qual è la conseguenza per gli artisti?

Una frammentazione della loro carriera, fatta di picchi e baratri, forse “pilotati” dagli algoritmi oppure dai reali (?!) capricci del mercato.

È l’era delle micronicchie, delle tribù e qui il mio pensiero diverge da quello di Giampiero:

mentre a lui la cosa preoccupa perché “i fans si disgregheranno nel seguire una quantità di “piccoli” artisti-creatori che alimentano quella long tail che stenta a campare e non fa cultura musicale” io penso che questa disgregazione sia il segnale della nuova cultura musicale, una in cui il rapporto tra fan e artista sarà sempre più “disintermediato” e l’idea di “artista mainstream” perderà gradualmente senso perché non ci saranno più i “main media”.

È già così: la percezione del valore di un artista si costruisce dalla sua presenza sui dispositivi delle persone e questa presenza dipende dagli algoritmi che, in teoria, dovrebbero assecondare il genuino interesse del proprietario dello smartphone.

Questo al netto di aberrazioni come artisti fake creati ad hoc ed errori di un machine learning imperfetto.

È chiaro che va ripensato il modello di remunerazione e cessione dei diritti, che al momento premia solo i grandi aggregatori di musica e penalizza i singoli creator/artisti/titolari dei diritti.

Ma questi ultimi, ovvero noi artistini piccini picciò, dovremmo percepire sia la responsabilità culturale di coltivare la nostra tribù sia i vantaggi economici che ne derivano, “rubando” con intelligenza dai paradigmi della creator economy.

E se con Giampiero condivido appieno che “la musica dovrebbe agire per recuperare la sua capacità di fare cultura, che lo streaming sta minimizzando”

…sostengo fermamente che ciò potrà accadere soltanto se gli artisti si riapproprieranno del senso della propria arte, tornando a scrivere, a cantare e a suonare PER le persone, non per cercare di infilarsi nel presunto mainstream, snaturando sé stessi e sacrificando la propria penna e (non esagero) la propria vita, all’altare del tanto esaltato quanto inutile contatore degli stream.

Se oggi la musica è tappezzeria, domani potrebbe tornare ad essere quel quadro di un artista poco noto che mostriamo agli amici con orgoglio perché “l’abbiamo scoperto noi”.

Magari nel nostro salotto virtuale (ma questa è un’altra distopica storia). 

Opinioni? 😌

Sull'autore

Gabriele

Sono un cantautore e music marketer, aiuto i colleghi a farsi scoprire DA VIVI.

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